di Giulio Andreetta
“Io sono uno, mentre loro sono tutti” scrive il protagonista in uno dei passaggi centrali del testo Memorie dal sottosuolo. Ed in effetti gran parte di questo racconto assume, per Dostoevskij, il tono quasi di una confessione autobiografica, in particolar modo dei suoi difficili inizi di scrittore, purtroppo segnati in prevalenza dall’incomprensione del mondo pietroburghese dell’epoca. Ed è in effetti la stessa incomprensione di cui parla l’uomo del sottosuolo in questo romanzo, a mio avviso una delle vette di tutta l’opera dello scrittore russo, anche per il valore emblematico che assume per delineare in profondità la sua poetica e il suo pensiero filosofico (che viene esplicitato con chiarezza nella prima parte del libro). Ciò che conferisce un carattere tragico a Memorie dal sottosuolo non è tanto la situazione di degrado spirituale e morale che affligge il protagonista – come ad una lettura superficiale e ingenua si potrebbe evincere – ma l’intero contesto sociale che viene dipinto con grande maestria. La situazione di emarginazione e di degrado materiale in cui vive il protagonista non è che il riflesso infatti di un contesto sociale nel quale dominano incontrastati conformismo, ipocrisia, e convenzioni di stampo borghese del tutto arbitrarie e stantìe. Tutto ciò si mette in rilievo soprattutto nell’episodio del ‘ritrovo tra amici’ all’Hotel de Paris. In questa occasione tutta l’esteriorità priva di sostanza, e l’arroganza ignorante, che anima i discorsi degli ex-compagni di scuola dell’uomo del sottosuolo è messa a nudo in tutta la sua pochezza. In tale atto di accusa, portato avanti magistralmente dal protagonista – che però si rivela in questo caso affine allo stesso Dostoevskij, soprattutto considerando le sorprendenti assonanze con l’autore (singolari coincidenze biografiche, ad esempio, nel racconto, da parte del protagonista, dei ricordi scolastici, della passione per la lettura, persino per quel che riguarda l’esperienza lavorativa) – vi è l’atto d’accusa che Dostoevskij stesso manifesta, evidentemente in modo dissimulato e implicito, nei confronti della società del suo tempo. E tutto ciò ancora una volta ha a che fare con le conseguenze nefaste che un’etica del conformismo – non basata sulla ragione o sull’intelletto, ma sulla mera imitazione di atteggiamenti comuni, dati per scontati e mai messi realmente in discussione col ragionamento – può manifestare sulla libertà individuale. Memorie dal sottosuolo potrebbe essere forse letto come un devastante atto di accusa nei confronti di un’intera società, e al contempo un canto sublime di aspirazione a una libertà che non può trovare accoglimento nel grigiore di una realtà sempre uguale a se stessa, e in un provincialismo che evidentemente non era del tutto assente nemmeno in una delle grandi metropoli europee dell’Ottocento. Ma tutto ciò potrebbe in ogni caso portarci ad individuare alcune conseguenze etiche – in senso generale, e dunque non moralistico – sulla difficoltà, per l’individuo, di raggiungere una manifestazione sincera della propria unicità. L’uomo del sottosuolo vive realmente in un incubo, o, ancor meglio, vive nel sottosuolo allo stesso modo di un ratto. E tuttavia il sottosuolo non è l’espressione solo di una negatività, per Dostoevskij, come ad una prima ingenua lettura potrebbe sembrare. Il sottosuolo rappresenta in effetti, secondo una lettura psicoanalitica, il mondo dell’inconscio, e del non-detto, che però emerge attraverso l’espressione artistica: non si dimentichi che il romanzo è narrato in prima persona dallo stesso protagonista. Siamo vicini, sotto questo profilo – ed in questo Dostoevskij è genialmente anticipatore di Freud – alla teoria psicoanalitica della sublimazione come principio e genesi dell’opera d’arte. E però, se l’arte rappresenta in effetti una valvola di sfogo, per l’uomo del sottosuolo, il racconto che ne è generato appare realmente fuori misura, scomodo, disturbante, sia per il lettore dell’epoca, sia per il lettore di oggi. Appare realmente opportuno – oggi come ieri (se non altro per la imperante morale borghese) – stendere un velo pietoso su questa parte oscura, inconscia, istintiva e inconsapevole dell’uomo. Alla luce di questo atto di ribellione nei confronti di un mondo che l’uomo del sottosuolo non comprende fino in fondo, e che nel suo intimo disprezza, deve essere letta questa voluptas dolendi (voluttuosa sofferenza) che sembra provare il protagonista. E alla luce di questo inconscio atto di ribellione – e dunque destinato al fallimento, proprio perché portato avanti inconsapevolmente – sembra esserci però anche l’inizio, del tutto ipotetico e non narrato, di una sorta di ‘redenzione’. L’uomo del sottosuolo patisce sì tutta una serie di sventure dettate dai suoi atteggiamenti irrazionali, ma allo stesso tempo, e qui le interpretazioni si fanno più complesse e aperte a diverse chiavi di lettura, manifesta anche un coraggio che lo rende un autentico personaggio tragico e contraddittorio, con luci e ombre. Dirà infatti in uno dei momenti più alti e significativi dell’intero romanzo: <<Non mi lasciano… Io non posso essere… buono!>>, in un dialogo drammatico con una prostituta. E allora chi veramente vuol mettere sotto accusa Dostoevskij? L’uomo del sottosuolo per la sua cupa esistenza, segnata dall’incomunicabilità e dalla solitudine, o un’intera società che sembra produrre tale abbruttimento e tale condizione di marginalità (ed esserne ovviamente responsabile)? Non si tratta, a mio avviso, di delineare in questo caso una eventuale interpretazione marxista del lavoro – come potrebbe in modo del tutto legittimo essere proposto –, ma probabilmente si tratta di una riflessione di Dostoevskij sui fondamenti etici, uno scavare ancora una volta in profondità, nel sottosuolo, nelle ancestrali e libere espressioni etiche dell’uomo.