Molto interessante è notare quanto per la cultura greca la musica rivestisse una valenza ambivalente, essa è infatti sia la manifestazione del dio Apollo, che del dio Dioniso. Apollo è infatti la divinità del Sole (dunque della chiarezza, dell’equilibrio), della poesia, della profezia, delle arti mediche, e ovviamente della musica. Lo strumento musicale prediletto dal dio è proprio la cetra, un cordofono che era utilizzato prevalentemente per accompagnare la declamazione poetica. L’altra polarità della musica è invece quella connessa al dio Dioniso, il dio della linfa vitale, dell’ebbrezza, dell’abbandono alla sensualità, del delirio mistico. Dioniso è, a differenza di Apollo, associato all’aulos, una sorta di flauto che era impiegato in ogni sorta di occasione, dai simposi, all’accompagnamento del coro nella tragedia attica. Vi è anche una leggenda riguardante la dea Atena a proposito di questo strumento: ella, dopo aver creato l’aulos, provò a suonarlo, ma deformandosi la sua bellezza a causa del gonfiarsi delle guance, lo gettò via irritata.
A ben vedere questa dicotomia, che per Friedrich Nietzsche, come si sa, è associata alla nascita e all’evoluzione della tragedia, è riscontrabile anche nelle modalità di come era intesa la musica su un piano teorico dai maggiori filosofi greci, Platone e Aristotele. Per Platone — filosofo, e dunque cultore del logos, e cioè della ragione — è da preferirsi nettamente la cetra all’aulos, in quanto la musica dionisiaca rischia di traviare la gioventù, favorendo un abbandono alle passioni pericoloso per la vita civile. Aristotele, invece, criticò Platone su questo specifico punto, contrapponendo l’idea che la musica, attraverso il processo della catarsi, consentisse proprio una purificazione da quegli affetti che per Platone erano dannosi, tramite l’imitazione1 delle emozioni ad opera del musicista. Ma, a ben vedere, ciò che è realmente importante da cogliere di tutto questo complesso e incantato mondo nel quale ragione e sentimento, mito e filosofia si intrecciano in modo indissolubile, è la netta distinzione, nella cultura greca, tra una concezione musicale teorica (e dunque apollinea) intesa come espressione di rapporti numerici, pitagorici, matematici, la quale può e deve avere una funzione educativa ai massimi livelli2, e una musica intesa come prassi il cui ascolto rimanda certamente all’influenza del dio Dioniso. È ben vero, infatti, che anche Apollo è associabile ad una prassi musicale, tuttavia prevalentemente connessa alla declamazione letteraria e poetica (ed è in questo ambito che infatti la cetra veniva prevalentemente utilizzata), non di una musica che oggi verrebbe definita come ‘assoluta’. (Infatti il Nietzsche della Nascita della tragedia associa la musica in modo certissimo a Dioniso, e non ad Apollo). Anche l’atto di connettere la poesia ad Apollo deve essere in un qualche modo ricondotto al fatto che ai primordi della civiltà greca — periodo in cui, come si sa, fiorì lo stupendo repertorio di miti che tutti ammiriamo — la poesia era associata all’epica. La poesia epica — attraverso la narrazione delle vicende collettive di un intero popolo — si configura come racconto istituzionale, non certamente espressione del delirio mistico, soggettivo, dionisiaco del poeta com’è inteso nella modernità.
Ma la dicotomia tra apollineo e dionisiaco sembra essere veramente uno dei valori fondanti della civiltà greca, così come correttamente individuato da Nietzsche nella Nascita della tragedia (un lavoro che fu ampiamente ammirato e pubblicizzato dallo stesso Richard Wagner, amico del filosofo).
Ora, a mio parere, risulta essenziale che la civiltà contemporanea recuperi dall’antica Grecia la conoscenza e l’utilizzo di tutte queste categorie concettuali in quanto non ci troviamo di fronte a semplici leggende o a miti irrazionali, ma ad una spiegazione, ovviamente metaforica come nel caso del mito, del perché la musica possa rivestire un fascino a volte oscuro, irrazionale, talmente seducente da risultare quasi pericoloso per la vita civile (tale era infatti l’opinione di Platone). Stesso discorso potrebbe essere fatto per la poesia contemporanea, o per un abbandono mistico e irrazionale all’esistenza, alla vita, ed infatti di tutto ciò il riferimento unico e immediato è ancora una volta Dioniso.
E ora mi sia concessa un’osservazione sulla contemporaneità riguardante alcune forme di ascolto che sono rese possibili tramite i dispositivi di riproduzione digitale. Ascoltare musica per un periodo di tempo troppo prolungato nell’arco dell’intera giornata, o, per i musicisti, un studio strumentale o vocale eccessivamente protratto nell’arco dell’intera giornata, non può che portare ad uno scompenso dell’equilibrio che i Greci avrebbero associato a Dioniso e ad Apollo. Se la componente dionisiaca prevale nettamente nella propria esperienza individuale il rischio è quello di perdere il contatto con la parte razionale, ragionevole, di Apollo, che consente il raggiungimento dell’equilibrio attraverso un controllo di sé. Com’è ovvio alla base della nostra vita civile vi deve essere una conoscenza, una consapevolezza delle proprie emozioni — il che non significa certamente rimuoverle o ripudiarle — data dall’esercizio della ragione. A molti musicisti andrebbe infatti ricordato che un corretto equilibrio tra ‘ragione’ e ‘sentimento’ non può che essere salutare anche per la prassi esecutiva. Abbandonarsi per troppo tempo alla sfera di influenza di Dioniso potrebbe portare ad uno scompenso della propria gestione della quotidianità, intesa come compresenza di ragione ed emozione, ragione e sentimento. Ecco perché la musica, a mio avviso, va centellinata con parsimonia, sia per quel che riguarda l’ascolto, ma anche per quel che concerne lo studio quotidiano dello strumento. Molti grandi musicisti del passato infatti avvertivano spesso i giovani di non studiare eccessivamente, massimo 3 ore al giorno (Arthur Rubinstein). Vladimir Horowitz arrivò a dichiarare, in tarda età, di non studiare più di 40 minuti al giorno.
Tutto ciò è solo un esempio di quanto possano essere utili alcune considerazioni che scaturiscono dalla conoscenza della mitologia e della filosofia greca. Altri potrebbero, a sostegno di queste argomentazioni, suggerire uno sfondo di analisi psicanalitica. Ed infatti è banale ricordare quanto lo stesso Sigmund Freud — ma anche Carl Gustav Jung — si ispirò proprio al mito greco per la sua teoria psicanalitica.
1Per Aristotele il musicista imita un’emozione, non la vive in modo completo, la simula in modo da ottenere quel particolare effetto che è definito come catarsi nella Poetica.
2Non a caso nel Medioevo la musica faceva parte delle Sette arti liberali, e in particolare del Quadrivio. Ma essa era intesa solamente in quanto studio intellettuale della teoria musicale, non certamente di una prassi strumentale o vocale.